Ripercorriamo le sentenze sulla prova presuntiva per il controllo dei ristoranti, emesse dalla Corte di Cassazione, nel corso di questi anni, che ha avuto modo, più volte, di intervenire.
Le presunzioni – Premessa
Nel campo tributario la prova documentale è rara, emergendo, invece, “il carattere interpretativo della prova, la sua natura di ragionamento, di argomentazione (1)”: di fatto, siamo spesso in presenza di presunzioni che, ai sensi dell’art. 2727 del c.c., sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, giusto il disposto dell’art. 39, comma 1, lett. d, del D. P. R. n. 600/73, che stabilisce che l’incompletezza, la falsità, l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione dei redditi, ovvero l’esistenza di attività non dichiarate possono essere desunte sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise, e concordanti.
La Suprema Corte – con sentenza n.5052 del 4 febbraio 1987, depositata il 10 giugno 1987 ha stabilito che
“….in tema di prove su presunzioni non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignorato come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, bastando, invece, che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza colte dal Giudice, per giungere all’espresso convincimento circa tale probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto supposto a quello accertato….”.
Infatti, nella realtà dei fatti, la prova dell’effettività dell’evasione fiscale è spesso difficile da ottenere, anche quando esiste il “fumus” di una condotta illecita.
In ogni caso, l’accertamento tributario ha in sé delle variabili tecniche e una certa dose di “imponderabilità” che rende necessario il ricorso alle presunzioni.
Le presunzioni vengono solitamente graduate in:
- legali assolute, che impongono determinati obblighi fiscali per legge;
- legali relative, che danno per dimostrata una certa situazione sfavorevole al contribuente, facendo però salva la possibilità di prova contraria da parte di quest’ultimo;
- semplici, cioè liberamente valutabili dal giudice, ammesse nell’accertamento purché gravi, precise e concordanti ;
- “semplicissime”, cioè non qualificate, ma ugualmente azionabili dagli uffici in determinate circostanze (esempio: art. 39, secondo comma, D.P.R. n. 600/1973).
Da un punto di vista generale, le prove sono distinte prove dirette ed indirette, sulla base del grado di forza che riescono a produrre.
Nell’ambito delle prove indirette rientrano le cd. presunzioni, la cui definizione è contenuta nell’art. 2727 del codice civile: la conseguenza che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato.
Mentre la prova diretta permette di dimostrare le argomentazioni addotte senza ulteriori procedimenti logici, la presunzione consiste proprio in un processo logico deduttivo in forza del quale, dalla constatazione di taluni fatti certi si presumere la sussistenza di altri fatti non noti.
La prova presuntiva rappresenta uno strumento dalle potenzialità elevate, dotato in alcuni casi di forza legislativa: presunzioni legali a supporto dell’onere della prova.
Come osservato in dottrina (2),
“in effetti, l’importanza delle presunzioni risiede nella capacità, in ultima analisi, di determinare l’inversione dell’onere de quo, il quale viene ad essere traslato in capo al soggetto passivo di imposta. È evidente che tale effetto si osserva esclusivamente in caso di presunzioni relative che, come noto, ammettono la prova contraria. Nel caso, invece di presunzioni assolute detta possibilità è interdetta per espressa previsione di legge: siamo in presenza del massimo vigore dell’istituto in questione. In generale, comunque, sia il legislatore civilistico che quello tributario mantengono un atteggiamento di particolare rigore nella valenza attribuita alle presunzioni. Queste devono essere caratterizzate da gravità, quanto alla capacità dimostrativa, precisione, quanto all’esatta definizione dei confini entro i quali manifestano effetti, e concordanza, quanto alla convergenza verso risultati che possono essere ritenuti univoci”.
Secondo un principio ormai consolidato della Corte di Cassazione – sentenza n.7931/1996 – i predetti requisiti, quanto alla gravità occorre che siano
“…oggettivamente e intrinsecamente consistenti e come tali resistenti alle possibili obiezioni…”, quanto alla precisione occorre che risultino “…dotati di specificità e concretezza e non suscettibili di diversa altrettanto (o più verosimile) interpretazione…”,
e quanto, alla concordanza è necessario che conducano a conclusioni, conformi e corrispondenti, risultando ovviamente “…non configgenti tra loro e non smentiti da dati ugualmente certi…”, e – sentenza n. 11206 del 20 dicembre 2006, dep. il 16 maggio 2007 – il giudice del merito deve, innanzi tutto, valutare in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari al fine, da una parte, di scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, dall’altra, di conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, lo stesso giudice deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticarnente uno o alcuni indizi.
Perciò, nel caso di specie, la decisione con la quale il giudice del merito si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi (nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento), è pertanto viziata da errore di diritto e, di conseguenza, censurabile in sede di legittimità (3).
Ed ancora, la Cassazione, con sentenza – n. 2217/06 depositata in data 1° febbraio 2006 (e confermata dalla sentenza n. 2218/06, depositata in pari data) – ha affermato che
“…la documentazione extracontabile legittimamente reperita presso la sede dell’impresa, quand’anche risolventesi in annotazioni personali, costituisce elemento probatorio, ancorché meramente presuntivo, utilmente valutabile in sede di accertamento IVA, indipendentemente dal contestuale riscontro di irregolarità nella tenuta della contabilità e di inadempimenti di obblighi di legge”( in senso conforme Cass. sentenza n. 3222 del 14 febbraio 2007, secondo cui “ il rinvenimento di una contabilità informale, tenuta su un brogliaccio, oltre che agende-calendario, block-notes, matrici di assegni, estratti di conti correnti bancari, costituisce un indizio grave, preciso e concordante dell’esistenza di imponibili non riportanti nella contabilità ufficiale, che legittima l’Amministrazione finanziaria a procedere ad accertamento induttivo”
e Cass. sentenza n. 14218 del 9 maggio 2007, dep. il 19 giugno 2007, secondo cui costituisce jus receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale il ritrovamento di scritture contabili informali tenute su documenti non ufficiali quali brogliacci, appunti, annotazioni ovvero il rinvenimento di matrici di assegni, agende o block-notes, costituiscono indizi forniti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza tali da legittimare l’Amministrazione finanziaria a procedere alla determinazione del maggior reddito imponibile con accertamento induttivo).
E’ in questo contesto che ci dobbiamo occupare anche del cd. divieto del praesumptum de praesumpto. Come affermato e sostenuto dalla migliore dottrina (4), cui abbiamo il piacere di associarsi, è “ un luogo comune (o meglio vale solo come ammonimento tendenziale) l’espressione secondo cui sarebbe vietato trarre presunzioni da presunzioni (Praesumptum de praesumpto non admittitur)”. Al più, la presunzione di secondo grado, cioè basata su un fatto a sua volta presunto, potrà essere meno convincente; ma è un problema di prove.
La stessa dottrina citata afferma che
“verso questo luogo comune la giurisprudenza ha però un atteggiamento di formale rispetto, perché parla di presunzioni di secondo grado solo quando si tratta di respingerle; quando invece una presunzione di secondo grado le sembra fondata la accetta, senza prendere posizione sul problema generale….In concreto il divieto di doppie presunzioni può avere il potere di suggestione che hanno molti luoghi comuni, e può fare un certo effetto quando il giudice è perplesso; un solenne praesumptum de praesumpto non admittitur , messo al punto giusto di un ricorso, può suonare bene per abbellire le nostre tesi (ad colorandum, come qualche volta si dice in gergo avvocatesco); l’importante è però che queste tesi siano per altri versi fondate, e che non si faccia affidamento solo sull’astratto di vieto di doppie presunzioni”.
Le presunzioni nell’attività di ristorazione
Caratteristica principale dell’art. 39, comma 1, lett.d, del D.P.R.n.600/73, cd. accertamento analitico, con posta induttiva sui ricavi, è quella di consentire di desumere
“l’esistenza di attività non dichiarate….anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”.
Come abbiamo già avuto modo di vedere, al fine di ritenere correttamente desunta una presunzione semplice, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo, invece, sufficiente che le circostanze sulle quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del secondo come una conseguenza del primo (già accertato in giudizio) alla stregua di canoni di ragionevole probabilità, dovendosi cioè ravvisare una connessione tra la verificazione del fatto già accertato e quella del fatto ancora ignoto alla luce di regole di esperienza che convincano il giudice circa la verosimiglianza della verificazione stessa dell’uno quale effetto dell’altro.
Il relativo accertamento può presentare, quindi, qualche margine di opinabilità, atteso che il procedimento logico di deduzione non è quello rigido che è imposto in caso di presunzione legale.
In mancanza di elementi probatori di segno diverso, non può censurarsi l’operato del giudice di merito che, adeguatamente motivando, fondi il proprio convincimento su un unico elemento presuntivo, là dove tale elemento risulti grave e preciso, mentre, dall’altro lato, l’apprezzamento di detto giudice circa l’esistenza degli elementi assunti a fronte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti richiesti dalla legge si sottrae al sindacato di legittimità, se convenientemente motivato alla stregua dei criteri sopra indicati ( cfr. Corte Cass. 26 marzo 1997, n. 2700; Corte Cass. 6 giugno 1997, n. 5082; Corte Cass. n. 8494/1998; Corte Cass. 14 settembre 1999, n. 9782).
Ripercorriamo le sentenze sulla prova presuntiva per il controllo dei ristoranti, emesse dalla Corte di Cassazione, nel corso di questi anni, che ha avuto modo, più volte, di intervenire.
Il ragionamento effettuato dalla Cassazione è naturalmente estensibile ad altre attività:
· sentenza n. 51 del 14 luglio 1998, dep. il 7 gennaio 1999. E’ legittimo l’avviso di accertamento che ricostruisca presuntivamente i ricavi di un ristorante sulla base del numero dei tovaglioli fatti lavare e sul consumo delle materie prime, in quanto nella prova per presunzioni è sufficiente che il fatto ignoto derivi dalla esistenza del primo come “conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile”. Dal controllo effettuato scaturiva, in base ad una serie di calcoli e di presunzioni, quali il consumo unitario di tovaglioli e di altri beni, che i pasti serviti erano pari a complessivi n. 43.198 anziché 28.141, come risultava invece dalla verifica delle ricevute-fatture esibite e contabilizzate in bilancio. Tale quantitativo si basava essenzialmente sulla presunzione che il consumo di tovaglioli fosse di uno per ciascun cliente, poi avvalorato dal calcolo presuntivo operato sugli altri beni (pane, pesce, carne, caffè) anche questi ultimi presunti per un consumo pro capite di 100 grammi di pane, 500 grammi di pesce, 300 grammi di carne, 7 grammi di caffè. La Corte ritiene corretto “il procedimento accertativo dell’ufficio, costituendo dato assolutamente normale quello per cui per ciascun pasto ogni cliente adoperi un solo tovagliolo, ed essendo poi ragionevolmente possibile e verosimile ricavare dal numero dei tovaglioli usati il numero dei pasti consumati, pur dovendosi ragionevolmente sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (posti dei soci e dei dipendenti, uso da parte dei camerieri, ecc.); così come, una volta calcolata la quantità normale di materie prime che si utilizza per ciascun pasto, è ragionevole desumere che il numero dei posti sia uguale alle materie prime acquistate diviso la quantità normale per ciascun posto (cfr. Cass. n. 23091/1991)”;
· sentenza n. 12121 del 19 aprile 2000, dep. il 15 settembre 2000. È legittimo l’accertamento nei confronti di un ristorante operato dall’ufficio che ha dedotto il reddito dalla quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata. Nella prova per presunzioni semplici non occorre, infatti, che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile quello ignoto secondo un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit. Pertanto, afferma la Corte,
“ il reddito di un ristorante può essere dedotto dal numero dei coperti, a sua volta dedotto dal numero di tovaglioli lavati; oppure dalla quantità di materie prime utilizzate (Cass. 7 gennaio 1999, n.51; si vedano in questi termini le sentenze della Cassazione n. 12774 del 22 dicembre 1998 e n.12482 dell’11 dicembre 1998”. In un simile quadro “ appare perfettamente legittimo l’operato della Amministrazione che ha dedotto il reddito del ristorante gestito dal contribuente dalla quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata”;
· sentenza n. 9884 del 1° marzo 2002, dep. l’8 luglio 2002. “accertamento analitico,accertamento induttivo,pasti consumati, La relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità.
Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito di impresa, ai sensi dell’art.39, comma 1, lettera d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)”.
La Corte di Cassazione, dopo aver affermato la legittimità dell’accertamento, sostiene che “ una volta calcolata la quantità normale di materie prime che si utilizza per ciascun pasto, è ragionevole desumere che il numero dei pasti sia uguale alle materie prime acquistate diviso la quantità normale occorrente per ciascun pasto (Corte Cass. n. 51/1999, cit.)”.
Pertanto, l’accertamento, fondato soprattutto sulla presunzione di omessa annotazione e dichiarazione di ricavi da somministrazione di pasti desumibile dalla quantità di tovaglioli utilizzati nel periodo in questione, benché sia di natura induttiva, si basa su elementi certi ed obiettivi tali da far ritenere sicuramente infedele la dichiarazione e, quindi, giustificabile la sua rettifica.
“Salvo, infatti, l’apprezzamento della cosiddetta percentuale di scarto, la quale, come si è detto, deve essere applicata per sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (Cass. n. 51/1999), è palese che, in forza dei principi sopra richiamati, il consumo unitario dei tovaglioli impiegati, ovvero il numero di questi, rappresenta un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente, cioè del tutto legittimamente (senza che intervenga la mediazione di alcun terzo fattore o l’applicazione di alcuna presunzione di secondo grado), presumere il numero dei pasti effettivamente forniti dall’impresa di ristorazione, così da ricostruirne i ricavi in sede di accertamento analitico-induttivo di tali specifiche poste”;
· sentenza n. 16048 del 28 aprile 2005, dep. il 29 luglio 2005. Costituiscono indizi gravi, idonei a giustificare l’accertamento induttivo nei confronti di un’impresa di ristorazione, l’utilizzo di tovaglioli in misura non congrua al reddito dichiarato, l’acquisto di fiori e torte non proporzionato ai coperti dichiarati, l’esigua percentuale di ricarico denunciata su vini e secondi piatti, le elevate spese sostenute dai soci per consumi personali.
“In applicazione di tali principi la Corte ha ritenuto la legittimità di un accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base di del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ogni pasto, ciascun cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati, e pur dovendosi, del pari ragionevolmente, presumere una sottrazione dal totale dei tovaglioli usati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, o l’uso da parte dei camerieri”;
· sentenza n. 28327 del 26 ottobre 2005, dep. il 21 ottobre 2005. La capacità recettiva di un pubblico esercizio (nel caso di specie, si trattava di una pizzeria) è un fatto da cui è legittimo dedurre per presunzione l’importo della prestazioni soggette ad Iva rese nel locale stesso. Al fine di superare detta presunzione il contribuente non può limitarsi a generiche contestazioni di quanto dedotto, ma deve proporre contestazioni specifiche e puntuali;
· sentenza n. 25001 del 9 novembre 2006, dep. il 24 novembre 2006. Deve essere cassata la sentenza di merito che ha annullato l’avviso di accertamento dei redditi di un ristorante self-service fondato sulla analitica valutazione delle quantità di merci e bevande utilizzate negli ingredienti e della loro incidenza sugli incassi. Sempre questa Suprema Corte
“ha stabilito che una volta calcolata la quantità normale di materie prime necessarie per la preparazione dei pasti, è ragionevole presumere che ne sia stato servito un numero pari al complesso dei generi alimentari acquistati diviso per le quantità di essi occorrenti per ciascun pasto (Corte Cass. n.51/1999)”;
· sentenza n. 8643 del 13 marzo 2007 (dep. il 6 aprile 2007). E’ stato affermato che l’Amministrazione finanziaria ha facoltà di disattendere le risultanze della contabilità del contribuente, ancorché regolarmente tenuta e non contestata, qualora si palesino gravi incongruenze fra i ricavi, i compensi ed ì corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalla specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore, legittimamente accertando con metodo induttivo e senza obbligo di accesso ai luoghi – se non ritenuto necessario – il maggior reddito imponibile avvalendosi di tale presunzione di carattere legale.
Per la Corte, la motivazione della sentenza impugnata è esaustiva e coerente; i giudici di secondo grado hanno osservato che, “ nel caso di specie, l’ufficio avrebbe legittimamente applicato il metodo induttivo per la ricostruzione degli esatti ricavi, giungendo a risultati accettabili, pur in presenza di un solo dato certo costituito dal numero di tovaglioli lavati.
Ma poi, in realtà, enumera altri dati giustificativi della presunzione di reddito, affermando testualmente che – nel caso in esame i fatti noti sono: il numero dei tovaglioli lavati, i prezzi dei singoli pasti ricavati dalle ricevute fiscali esaminate; aggiungendo a ciò il rilievo che il numero presunto dei coperti serviti trovava riscontro nella quantità di vino e di altri alimenti consumati”.
In base a questi dati, che la Commissione regionale ritiene congruamente accertati – perché il numero di tovaglioli lavati sarebbe addirittura inferiore a quello delle tazzine di caffè servite e perché il prezzo medio del singolo pasto sarebbe stato calcolato su di un campione significativo -, il giudice a quo perviene alla conclusione che
“l’accertamento dell’ufficio oltre che legittimo deve ritenersi valido anche sotto l’aspetto quantitativo stante l’iter logico seguito per la ricostruzione dei ricavi”.
Altrettanto puntuale è la ricostruzione del dettato normativo da parte della Cassazione:
“infondati sono i denunziati profili di violazione di legge, con riferimento agli artt. 39 del D.P.R. n. 600/1973 e 62-sexies del D.L. n. 331/1993, citati”. “
In virtù di tale norma, l’ufficio – allorché ravvisi gravi incongruenze
” fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli studi di settore – può quindi fondare, senza obbligo di ispezione dei luoghi, se non ritenuto assolutamente necessario, l’accertamento di maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, anche su tali gravi incongruenze e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 39 citato: il che costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass. n. 10649/2001, n. 8494/1998, n. 4555/1998)”;
· sentenza n. 8869 del 5 marzo 2007, dep. il 13 aprile 2007. E’ legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un ristorante sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati.
Ottobre 2007